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Leonardo Rusciano
(Ruscianè)
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Riporto qui il testo di un articolo
che ho scritto per il settimanale indipendente del Mugello "il Galletto",
uscito oggi.
Perdonaci tutti Leo
Quando suona una sirena, non lo puoi sapere Leo che ogni mamma si nasconde nelle sue paure, si finge tranquilla alla vita che succede e telefona per vedere se la vita nei suoi diciassette anni dall’altra parte risponde.
Le sirene hanno suonato sabato sera ed ho – come molte mamme digitato un numero – e accertata serenità, ho continuato a vivere. Non a dormire. A vivere un tempo che anche quel sabato sarebbe dovuto passare – e nell’irrequietezza dell’attesa per me è arrivata l’alba.
Detto fra noi, Leo non ero tranquilla perché anch’io come voi ho avuto diciassette anni ed ho giocato la vita in tutte le sue forme, senza sapere che a volte si disegna così un cerchio che si espande e diventa forma d’eterno.
Nelle forme d’amore mettiamoci pure l’ansia e mettiamoci tutte le paure del mondo che quando i figli crescono, – mi dicevano quand’eravate piccoli – aumentano le preoccupazioni. Ora te lo posso dire, Leo: è proprio così. Si inizia a dormire solo quando vi fate rientro.
E pensa Leo, ho visto tua mamma proprio un paio di sere prima, di corsa fra gli scaffali del supermercato del paese (sì paese. Mi piace la parola paese. Mi riporta all’odore di me bambina, del tempo delle fragole, quando la comunità era una famiglia curiosa ma accogliente, quand’anche il figlio ribelle era figlio della comunità, tutta indistintamente). Come spesso succedeva, ci siamo fermate per due parole sui vostri quasi diciott’ anni e come sempre le brillavano gli occhi e rinnovava i timori che si hanno tutte noi tutte mamme, di giovanotti, non ancora uomini, non più adolescenti.
Ricordi Leo le feste che ti preparava per i compleanni? E i panini farciti che ti mangiavi di nascosto, perché vita era anche quello. E ti ricordi le lunghe corse nel cortile della scuola o nei prati quando ci vedevamo tutti insieme, te, i tuoi genitori e noi, coi nostri figli ch’erano la tua classe, che sono oggi, diversi fra loro, i ragazzi che ancora si chiedono perché sia successo tutto questo.
In te, ognuno di loro in questi giorni sta realizzando che vita è anche altro. E’ dolore, incredulità, tristezza, rabbia e sconforto. Asciugale te queste lacrime troppo grandi. Sembrano il fiume Sieve che si fa grosso e non sa ancora cosa accadrà dopo la prima curva dietro lo sguardo.
Di quella stagione felice della vostra crescita c’è ancora un cordone che ci lega a te ch’è stata la scuola della tolleranza. La diversità ci ha unito e resi capaci dei nostri più bei ricordi.
Ecco, ora che l’indifferenza ha avuto la sua parte primaria quel sabato sera, perdonaci tutti Leo: perdona noi mamme che siamo mamme solo dei nostri figli, senza preoccuparci dei figli degli altri (che meravigliosa parola “gli altri” – dovrebbero farne un monumento o spiegarcela di nuovo nel suo valore più alto).
Perdonaci per non essere accorse a vedere cosa stava succedendo. Mi chiedo se avremmo potuto salvarti o se semplicemente potevamo “esserci” perché quello ch’è successo rimanesse una remota ipotesi di come sarebbero potuti andare i fatti. Invece no: è andata come non potevamo immaginare.
Nei drammi la realtà supera i giochi, i discorsi, la fantasia.
Sai Leo, quella domenica mattina un mamma di quelle mamme che t’ha conosciuto fin dall’asilo nido mi telefonò per chiedermi se avevo tue notizie. Perdonami Leo se io non sapevo niente. Solo nel dopo, questo maledetto dopo, mi ridiventasti un po’ figlio e scesi nella desolazione di questo paese, a cercarti.
Il sangue ben visibile lungo tutta Via Giotto, il monumento di Fido, un lato di Piazza Dante, parlavano chiaramente di un sabato finito male. Io come borghigiana dov’ero?
Perdonami Leo se ho saputo solo piangere e arrendermi all’evidenza.
Leo, perdonaci tutti. Se punto un dito verso qualcuno, automaticamente ne punto tre verso me stessa, dovendomi cercare l’errore, la leggerezza, la colpa.
Leo, perdona tutti quelli che stanno sempre dalla parte del giusto perché non si ricordano che a diciassette anni si può anche sbagliare. Che la vita è una ed è preziosa lo so capisce sempre troppo tardi. Quando il baratro fra la vita e la morte si fa sottile filo rosso. Rosso come il tuo sangue.
Ora però fatti urlo e rivendica – non vita ch’è impossibile – non vendetta che non ti riporterebbe a noi, né ci renderebbe diversi da chi t’ha ucciso – il bisogno di forma e di pensiero.
Fatti urlo nei nostri gesti. Fatti urlo perché questo paese si risvegli e inizi a diventare luogo di vita, di gioia e di Rispetto che è, credimi, una cosa molto seria.
Beffarda la vita, non trovi? Non potevi scegliere luogo migliore per cadere. Davanti al monumento dell’indifferenza ch’è il municipio che ora davanti a quei fiori che ti ricordano, dovranno dare risposte, oppure fosse anche solo quello: ascoltare i compagni della tua generazione.
Perché anche se noi non c’eravamo, nella nostra indifferenza Leo, tutti noi eravamo presenti. Forse nella mia assenza ero io la lama che ti squarciava il cuore?
Credo Leo che l’urlo di dolore non abbia altra bandiera che quella bianca. Almeno due mamme, in maniera diversa, insieme a te sono morte quel giorno. Molte di più, credimi. Anch’io con loro un po’ sono morta.
Di quello che è successo è di tutti la colpa. Nessuno si senta escluso. Nemmeno lo straniero che divide con noi strade, luoghi di lavoro o fosse solo l’aria. Non si senta escluso chi ha alleggerito la pena al condannato e scarcerato che t’ha ucciso, né il barista che ha continuato a dar da bere all’ubriaco. Non si sentano esclusi i guardiani di Dio, ne’ quelli della legge. Assenti anche loro come me.
Che si chiudano per un po’ le bocche alle rare fontane rimaste in paese, perché nessuno possa lavarsi le colpe e dire al solito che no, non è successo niente.
Ora ho solo alcune domande a cui non riesco a trovare riposta e prego chi di dovere di darmele come cittadina di un paese che ha la sua più degradata periferia nel suo centro. La tua morte ne è già monumento.
Sono giorni che mi interrogo, che cerco di capire cosa da parte nostra non sia successo o com’è stato possibile che tu sia rimasto oltre mezz’ora morente per terra prima che un mezzo di soccorso potesse arrivare a salvarti, o capire dov’eravamo noi non poi così distanti? E dov’erano i signori delle forze dell’ordine mentre i tuoi coetanei in te hanno capito che a diciassette anni, per gioco, per errore o per fatalità si può anche morire?
Ciao Leo, figlio fragile di questo paese pieno di colpe.
Beatrice Niccolai
nessuno si senta escluso: nemmeno io.